
L’architetto, secondo Adolf Loos, è “un muratore che sa di latino”. Nonostante sia molto probabile che Giorgios Papaevangeliou se la cavi ancora meglio col greco, i suoi disegni e le fotografie di Matteo Benedetti che li fronteggiano sono senz’altro espressioni della cultura che sottende la loro attività professionale.
In “Antrum”, il progetto presentato in queste sei tavole, Giorgios individua il valore essenziale dell’architettura nelle potenzialità immaginative offerte dal manufatto: l’architettura è tale se conduce a una visione astratta, sintetica della realtà. Come la cappella di un palazzo nobiliare, la microarchitettura di “Antrum” è la riduzione di scala di uno spazio collettivo, ridotto alle dimensioni di un abito architettonico e inserito in una stanza che lo contiene e ne misura la concatenazione dei solidi stereometrici, leggibile come in un’architettura illuminista o sul retro dell’altare di Piranesi; la forma coinvolge l’intelletto fino a superare, in una comprensione umanistica dell’edificio, il dato sensibile della costruzione: questo, come già per Boullée, è il fine ultimo dell’architettura. Delle tre piccole camere che si susseguono nel disegno di Giorgios, l’ultima rimane inaccessibile per suggerire, in virtù della luce la presenza di un varco da attraversare con l’immaginazione, per accedere alla dimensione spirituale dello spazio.
Nel voltarci a guardare “Origine”, il progetto fotografico di Matteo, sorvoliamo l’intero arco di vita dell’architettura, passando dalla sua nascita nel progetto alla sua conclusione nella rovina. Tale arco temporale è ciò che Matteo intende osservare in questi scatti, per scorgervi ciò che permane invariato, l’essenza dell’architettura. Ciò che emerge nella rovina è il radicamento dell’architettura nella terra che la ospita, il suo rapporto col paesaggio, ma anche l’espressione della forma nella sua venustas ormai priva di firmitas e utilitas, secondo la definizione puriniana. Nel rapporto con la natura e nella natura della forma, dunque, Matteo cerca I tratti originari dell’architettura, svelati in queste sei fotografie. Fotografie che scelgono di allontanarsi dai parchi archeologici, alla ricerca di ruderi sperduti o prossimi a piccoli centri, comunque dimenticati dal turismo e distanti dall’idealizzazione romantica, vissuti quotidianamente nella loro semplice presenza di resti, testimoni del tempo remoto e mitico in cui le cose hanno avuto origine.
Dalle rispettive pareti, progetto e rovina si guardano come in uno specchio e si riconoscono l’uno nell’altra in alcuni caratteri comuni, come l’asciuttezza delle forme, liberate da ogni caratterizzazione superflua, la sensibilità per il valore plastico della massa muraria, i forti contrasti di luce e ombra enfatizzati dal bianco e nero, l’invito a spingersi al di là di barriere visive poste ad arte. La mostra offre dunque uno sguardo silenzioso e profondo sull’architettura, sbirciando oltre la “iconostasi” del dato percettivo. Il disegno sapiente a matita di grafite su cartoncino, così come gli scatti col banco ottico stampati ai sali d’argento in edizione limitata, dichiarano la cura e il valore altissimo attribuito dai due architetti ai prodotti rari e preziosi di questa fase speculativa del loro lavoro, il “latino”, appunto, della costruzione.
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